Sono passati cinquant’anni da quella notte del 2 novembre 1975, quando all’idroscalo di Ostia venne trovato senza vita Pier Paolo Pasolini. Poeta, scrittore, regista e intellettuale tra i più influenti del Novecento, la sua morte resta avvolta nel mistero, come se la sua voce – scomoda e lucida – avesse voluto continuare a interrogare l’Italia anche dopo il silenzio.
L’Italia che non dimentica
In occasione del cinquantenario della sua scomparsa, in tutta Italia si moltiplicano le iniziative dedicate alla memoria di Pasolini: da Ostia, luogo simbolo della tragedia, fino a Casarsa della Delizia in Friuli, dove il poeta è sepolto e dove visse parte della sua giovinezza. Mostre, spettacoli teatrali, letture pubbliche e documentari celebrano non solo l’autore, ma anche l’uomo che, con la sua visione, riuscì a raccontare le contraddizioni dell’Italia moderna come pochi altri.
Dalle radici friulane alla Roma degli anni Cinquanta
Nato a Bologna nel 1922, Pier Paolo Pasolini trascorse l’adolescenza a Casarsa, in Friuli, accanto alla madre Susanna e al fratello Guido, partigiano caduto durante la guerra. Fu un periodo che segnò profondamente la sua sensibilità poetica, tanto da spingerlo a fondare un piccolo circolo letterario e a scrivere i primi versi in dialetto friulano.
Nel 1950, travolto dallo scandalo di un’accusa di “corruzione di minori” e dall’espulsione dal Partito Comunista Italiano, decise di lasciare il Friuli per trasferirsi a Roma. La capitale lo accolse con la sua crudezza e il suo splendore, e divenne il teatro umano dei suoi romanzi più celebri, da Ragazzi di vita a Una vita violenta.
Lo scrittore che amava gli ultimi
Roma per Pasolini fu molto più di una città: divenne una lente attraverso cui raccontare la povertà, la marginalità, ma anche la dignità degli ultimi. Nei suoi romanzi, i protagonisti erano spesso giovani di borgata, figure autentiche e disperate, specchio di un’Italia che stava cambiando troppo in fretta.
Con Ragazzi di vita (1955), Pasolini scosse il panorama letterario italiano, offrendo una rappresentazione cruda e realistica del sottoproletariato urbano. L’opera fu accusata di oscenità, ma divenne presto un simbolo di coraggio letterario e sociale.
Dal cinema alla provocazione come linguaggio
Negli anni Sessanta e Settanta, Pasolini si impose anche come regista, realizzando film che oggi sono pietre miliari della storia del cinema italiano. Da Accattone a Mamma Roma, da Il Vangelo secondo Matteo a Medea, fino all’estremo e controverso Salò o le 120 giornate di Sodoma, ogni pellicola fu un atto di sfida, una riflessione radicale sul potere, la religione e la decadenza morale della società.
Il suo linguaggio, mai conciliatorio, era un continuo esercizio di libertà. La “retorica della provocazione”, come la definì lui stesso, divenne il suo modo di disvelare le ipocrisie di un mondo che si proclamava moderno ma restava schiavo delle sue contraddizioni.
Un pensatore fuori dal coro
Pier Paolo Pasolini non fu solo un artista, ma un intellettuale totale: poeta, giornalista, regista, polemista. Non apparteneva a nessuna categoria, e proprio per questo riusciva a parlare a tutti. Le sue critiche al consumismo e al potere dei media anticiparono di decenni temi ancora oggi attuali, come la manipolazione dell’opinione pubblica e l’omologazione culturale.
Il suo essere “inorganico” – come lui stesso amava definirsi – era la prova della sua indipendenza. Nessuna ideologia riuscì mai a incasellarlo davvero.
L’eredità di Pasolini oggi
Cinquant’anni dopo, la figura di Pier Paolo Pasolini continua a interrogare la coscienza collettiva. Le sue parole risuonano ancora come un monito: “Io so. Ma non ho le prove”. Una frase che sintetizza perfettamente la sua intuizione visionaria e il coraggio di dire ciò che molti tacevano.
Il suo lascito è una chiamata alla responsabilità civile e culturale: pensare con la propria testa, anche quando costa caro.
29 Ottobre 2025
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