Pochi sanno che la Banca d’Italia custodisce uno dei più grandi patrimoni aurei del mondo. Oltre 2.450 tonnellate di oro riposano nei suoi caveau, una ricchezza simbolica e concreta che rappresenta, oggi come ieri, una garanzia di stabilità economica e indipendenza nazionale. Ma chi ne detiene davvero la proprietà? E, soprattutto, è possibile utilizzarlo per finanziare la spesa pubblica?
Un’eredità del dopoguerra
La riserva aurea italiana è il frutto di una strategia lungimirante adottata nel periodo del boom economico del dopoguerra. Allora, i governatori della Banca d’Italia decisero di investire parte dei proventi delle esportazioni in lingotti d’oro, creando un “paracadute finanziario” per i tempi difficili. L’ultimo acquisto risale al 1973, quando le riserve raggiunsero il record di 2.600 tonnellate. Da allora, nessun nuovo investimento: solo discussioni su cosa farne e se valga la pena venderne una parte.
L’oro come risorsa da utilizzare?
Nel corso degli anni, più voci politiche hanno ipotizzato di “mettere a frutto” l’oro di Stato. Nel 2011 Romano Prodi propose di creare un fondo europeo garantito dalle riserve auree delle banche centrali. Più recentemente, alcuni esponenti dell’attuale maggioranza hanno ventilato l’idea di impiegare una parte di queste riserve per coprire la spesa pubblica o bloccare l’aumento dell’IVA. Una prospettiva che, seppur suggestiva, solleva non pochi dubbi giuridici e macroeconomici.
Chi possiede davvero l’oro?
È una domanda che ritorna spesso: a chi appartiene l’oro della Banca d’Italia? Secondo i parlamentari Alberto Bagnai e Claudio Borghi, l’oro dovrebbe essere considerato di proprietà dello Stato, che dunque avrebbe diritto a disporne. Tuttavia, la Banca d’Italia è un istituto di diritto pubblico autonomo, con funzioni regolamentate da trattati europei. La sua indipendenza, sancita per legge, impedisce al governo di utilizzare le riserve auree per finanziare direttamente il bilancio pubblico.
Perché vendere sarebbe un errore
Vendere l’oro potrebbe sembrare una soluzione rapida per trovare risorse immediate, ma gli esperti sono concordi: sarebbe una scelta miope. Salvatore Rossi, ex direttore generale della Banca d’Italia, ha ricordato che immettere sul mercato una quantità significativa di oro causerebbe un crollo del prezzo, riducendo drasticamente il valore delle stesse riserve. Inoltre, la vendita darebbe un segnale di debolezza ai mercati finanziari, spaventando gli investitori e rendendo più costoso il finanziamento del debito pubblico.
Una garanzia contro le crisi
L’oro, in tempi di crisi, funziona come una polizza assicurativa nazionale. Nel 1973, ad esempio, durante lo shock petrolifero, la Germania prestò all’Italia due miliardi di dollari, accettando come garanzia un quinto delle riserve auree italiane. Senza quell’accordo, il Paese avrebbe rischiato di fermarsi. Oggi, con l’euro, scenari simili appaiono improbabili, ma la storia insegna che le certezze economiche non durano mai troppo a lungo.
Un patrimonio da proteggere
Le riserve auree della Banca d’Italia valgono circa 90 miliardi di euro: una cifra imponente, ma che rappresenta solo il 4 per cento del debito pubblico nazionale. Vendere l’oro potrebbe garantire un sollievo temporaneo, ma al prezzo di rinunciare a una delle poche risorse di sicurezza che il Paese possiede. Conservare questo patrimonio significa salvaguardare credibilità, indipendenza e stabilità per le generazioni future.
14 Ottobre 2025
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