Nei suoi primi 100 giorni al potere, Donald Trump ha impresso un’accelerazione drastica alla politica estera americana, scombinando equilibri e alleanze con un’agenda fortemente incentrata su una visione transazionale dei rapporti internazionali. Tra proclami da premio Nobel per la pace e mosse che ricordano più la diplomazia del bastone che quella della parola, il presidente statunitense ha rimescolato le carte della geopolitica mondiale come pochi prima di lui. Dall’inasprimento verso la Cina alla pressione sugli alleati europei, passando per la minaccia di espansione verso la Groenlandia e le tensioni sul Canale di Panama, l’America di Trump si è affermata all’insegna del “America First”, lasciando poco spazio al compromesso e molto al confronto diretto.
Addio soft power, benvenuto pragmatismo brutale
La nuova dottrina trumpiana ha mandato in soffitta la vecchia diplomazia dell’influenza, sostituendola con una visione schietta e spesso spigolosa: si dà qualcosa solo se si ottiene qualcosa in cambio. Così, il lungo corso del cosiddetto soft power americano viene interrotto a favore di una politica fatta di muscoli e dichiarazioni roboanti. L’obiettivo? Rimettere gli interessi americani al centro, anche a costo di spaccare coalizioni storiche e indebolire le reti multilaterali costruite nel secondo dopoguerra. Come ha osservato Mark Leonard, direttore dell’European Council on Foreign Relations, l’amministrazione Trump ha preso tutto ciò che si dava per certo nelle relazioni internazionali e lo ha gettato in un frullatore geopolitico.
Ucraina, Russia e un equilibrio precario
Mentre il conflitto in Ucraina resta acceso e la situazione nella Striscia di Gaza si aggrava, Trump ha tentato la carta del riavvicinamento con Vladimir Putin, rompendo l’isolamento internazionale del presidente russo. Una mossa tanto audace quanto controversa, che ha riacceso polemiche a Washington e creato forti tensioni con Kiev. Gli incontri segreti in Arabia Saudita, con il regno trasformato in mediatore di lusso, rappresentano una svolta che potrebbe riscrivere l’asse del dialogo globale, lasciando però l’Europa ai margini di trattative cruciali. I negoziati sul cessate il fuoco sembrano bloccati e Trump, fedele alla sua retorica assertiva, ha già minacciato un ritiro se non si arriverà a un’intesa rapida.
La sfida diplomatica con l’Iran
Altro fronte caldo è quello con Teheran. Dopo decenni di gelo post-rivoluzione islamica, gli Stati Uniti hanno accettato di sedersi, seppur indirettamente, al tavolo dei negoziati sul programma nucleare iraniano. Due le sessioni già svolte, una in Oman e l’altra a Roma, guidate per Washington da Steve Witkoff, imprenditore miliardario e fidatissimo consigliere del presidente. Sebbene Trump mantenga una politica di “massima pressione”, l’opzione diplomatica resta sul tavolo. E anche qui il messaggio è chiaro: negoziare sì, ma alle condizioni dettate dalla Casa Bianca.
Uscite clamorose e tagli alle politiche globali
Non sono mancate le decisioni drastiche anche sul fronte multilaterale. Il ritiro dagli Accordi di Parigi sul clima e dall’Organizzazione mondiale della sanità ha confermato l’intenzione di sfilare gli Stati Uniti da quelle che Trump definisce “strutture inefficienti e costose”. A ciò si aggiunge una pesante sforbiciata agli aiuti esteri e ai programmi su inclusione e diversità, visti come sprechi da tagliare. In patria, invece, il pugno duro è toccato agli immigrati irregolari e ai cartelli messicani, equiparati a organizzazioni terroristiche.
Una visione darwiniana delle relazioni tra stati
Secondo lo storico Melvyn Leffler, il nuovo corso trumpiano segna un ritorno al darwinismo sociale, dove le nazioni si affrontano in una gara per la sopravvivenza del più forte. Una prospettiva che fa tabula rasa dell’ordine globale liberale nato nel 1945 e lascia intendere che, per gli Stati Uniti, il tempo delle alleanze strategiche e della guida morale del mondo sia finito. Il futuro, nella visione di Trump, è un’arena dove vincono i più scaltri, i più rapidi e, soprattutto, i più determinati.
22 Aprile 2025
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